IL PROGETTO

_

 

Abitare la Musica. Cantare l’Architettura – è il tema della mia ultima tesi di laurea, nato come sfida da parte dei miei professori e dai miei maestri e come obiettivo per me di riuscire a configurare in un unico oggetto i miei interessi, le mie passioni, i miei percorsi di studio e soprattutto le cose in cui credo.

L’uomo senza sogni non è assolutamente nulla e per questo, pur rimanendo ancorata con i piedi per terra, mi sono concessa la libertà di attingere dal mio credo e dal mio immaginario, aggiungendo tutte le forze possibili, per far esistere quell’utopia che mi fa sentire semplicemente Viva e che vorrei condividere con artisti e studiosi per crescere insieme e aumentare la consapevolezza di ognuno di noi, in un momento storico che va in tutt’altra direzione.

Il progetto nasce da un’indagine sull’architettura virtuale che è stato oggetto della mia tesi di laurea magistrale in scenografia televisiva e cinematografica presso l’Accademia di belle arti di Brera-Milano nel 2012, che in seguito ha incontrato i miei studi musicali di canto lirico presso il conservatorio e quelli musicologi in Ca’ Foscari, dando origine all’ultima tesi di laurea magistrale in “Musica e arti performative” col titolo: “Abitare la musica. Cantare L’architettura”.

È un lavoro di ricerca che parte dall’esperienza, filtra gli elementi assimilati per mezzo della curiosità e arriva a formulare ipotesi di carattere generale. L’esperienza personale, affinché non sia soltanto il frutto di un percorso socratico utile ma fine a se stesso o troppo soggettivo, è sostenuta da un’occasione oggettiva quale il Festival  della Biennale e da un metodo di ricerca che comprende un sistema di studio dell’adozione di uno strumento e un altro sui bisogni dell’individuo, che svolgono la funzione di guida dall’inizio alla fine.

L’iter di studio tiene conto dei diversi modi che un giovane del nostro tempo ha di approcciare alla ricerca partendo dal presupposto che alla filosofia, alla sociologia e all’antropologia, oggi, si affianca una nuova modalità di indagine che analizza ciò che accade a partire dalla testimonianza dell’esperienza diretta dell’uomo e della conoscenza che egli ha di sé e dell’universo per comprendere l’oggetto del concepimento, che nasce da sé quale esigenza espressiva, rivolta agli altri perché la utilizzino e la consumino. Il metodo è definito dalla fenomenologia, che si prefigge l’obiettivo di comprendere ciò che accade partendo dalle esperienze pratiche svolte, chiedendo in prestito alla filosofia o alla sociologia o all’antropologia gli strumenti di analisi teoretici ed ermeneutici che conducano alla conoscenza per eliminare le sovrastrutture sociali, culturali e psicologiche, per valorizzare la relazione fra il sé e all’atto del conoscere l’azione, che però non ha ragione di esistere se non attraverso la conoscenza teorica.

I temi dello spazio sonoro e del suono spazializzato, che vengono presi in esame come punti fermi di questo percorso, appartengono a coloro che praticano la scena e vivono da sempre nel rapporto tra musica e architettura, pur esistendo dall’origine della civiltà, interessano la ricerca musicale (consapevolmente), sopratutto  dalla metà del Novecento.

Tuttavia, negli ultimi anni, vari sono gli elementi che fanno pensare a tale dicotomia come un nucleo che ha ancora delle potenzialità da sviscerare e sperimentare. Si fa riferimento a pubblicazioni come Lo spazio sonoro di Robero Favaro, edito dalla Marsilio  nel 2011, L’altrOrfeo di Elena Modena, Lo sparitio logopedico di Franco Fussi, piuttosto che alle nuove espressioni e alle attenzioni particolari da parte di giovani compositori, vetrine espressive e festival di musica.

Non a caso il festival della musica contemporanea, che organizza la Fondazione Biennale con cadenza annuale, nella cinquantasettesima edizione, ha chiamato gli artisti ad interrogarsi sulla questione sopra citata.

Le neuroscienze dimostrano chiaramente come la vista e l’udito siano strettamente collegati e complici nella proporzione neurologica che si crea tra la percezione di un suono e l’emissione vocale, piuttosto che la restituzione visiva di un’immagine.

L’attività musicale è data da quella che Dufrenne definisce “L’unità del plurale” e si genera per mezzo di una serie di impulsi ordinati, che hanno origine da tre organi di senso: il tatto che funge da propagatore del suono fra la fonte e l’ambiente esterno, l’orecchio che è la fonte dalla quale il suono giunge per primo e la vista che ha il compito della lettura dello spartito, almeno inizialmente.

Riconoscendo dunque, una un’equipollenza fra udito e vista, dunque alle rispondenti aree dell’espressione artistica: Udito/Musica e Vista/Architettura ( o arti visive), ci si pone l’obiettivo di abitarle in una perfetta compenetrazione e dunque di ragionare in termini interdisciplinari proiettandosi in un’idea di performance che implichi la pluralità dei linguaggi artistici e della conoscenza estesa.

Un altro aspetto che Abitare la Musica. Cantare l’Architettura. Si prefigge è quello di comprendere come i nuovi media e il web abbiano interessato la dicotomia sensoriale udito/vista nella produzione e nell’attività artistica e performativa.

“Non c’è più Maria Callas. Non ci sono più le grandi cantanti di una volta!” -  Eh bene si, Signori e Signore, fu così che come il Papa non è il Re, le Winx hanno preso il posto dell’Ape Maya e la stampa ad inchiostro di Gutemberg è stata soppiantata dalla tecnologia, anche le cantanti oggi non sono più quelle di un secolo fa-, ad esempio.

Oppure: “Se Beatrice gli si fosse connessa, Dante non avrebbe scritto la Divina Commedia”, direbbe Roberto Benigni a questo proposito. Dunque è inutile dire non c’è più Maria Callas pensando ai miti di una volta quando sarebbe bene accorgersi di cosa sta accadendo in questo momento di snodo storico e artistico e tutt’al più sul suo raggio di direzione sul futuro.

Se si riscontra uno scollamento fra artisti della generazione precedente e quella attuale già nella fase didattica è perché l’universo che ingloba gli emergenti in fase di studio non è lo stesso di quello in cui erano immersi i propri maestri. Tuttavia questa condizione non dovrebbe più spaventare l’uomo che vive il nostro tempo, visto che dovrebbe essere al corrente degli sviluppi della specie umana sia essi in senso naturalistico che culturale, ma purtroppo per la maggior parte di loro non è così.

Dunque resta necessario studiare, assimilare e portare avanti le tradizioni, benché non ci sarebbe evoluzione alcuna senza la conoscenza del passato, ma è necessario vivere il presente e proiettarsi nel futuro.

Ma dove ci stiamo dirigendo esattamente? E di cosa avrebbero bisogno i creativi in questa fase di snodo culturale così complessa e frammentaria?